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ISPIRAZIONI RAVENNATI... in quarantena d’altri tempi!

Anche nel dramma di una pandemia, l’arte e la creatività riescono a trovare ispirazione e a far germogliare opere geniali!


Ben lo sapeva Giovanni Boccaccio che...

nel suo capolavoro letterario, il Decameron, fece rifugiare dieci ragazzi fuggiti dalla peste nera, che nel 1348 imperversava in tutta Europa, nella campagna fuori Firenze, dove trascorsero le giornate in quarantena tra canti, balli, giochi, preghiere e, soprattutto, raccontando novelle, tutte accomunate da un leitmotiv: la capacità dell’individuo di superare le avversità!


E proprio a Ravenna... il grande autore trecentesco ambientò una delle sue novelle a tema amoroso più colorite e ricche di colpi di scena, e che divenne soggetto di quattro tavole realizzate da Sandro Botticelli nel 1483, forse commissionate da Lorenzo il Magnifico: l’ottava della quinta giornata, in cui viene narrata la storia del giovane Nastagio degli Onesti, un ricco nobile di “Ravenna, antichissima città di Romagna”, follemente innamorato “d’una figliuola di messer Paolo Traversaro”! Suo malgrado la giovane non ricambia la stessa passione, e, indifferente e fiera, lo rifugge con sdegno, causandogli innumerevoli sofferenze, al punto che, nel vano tentativo di conquistarla, rischia di dilapidare il suo patrimonio e pensa persino al suicidio.

Così, per scongiurare un simile tragico gesto, su consiglio di amici e parenti, decide di allontanarsi da Ravenna per dimenticare la fonte delle sue pene. “(…); e fatto fare un grande apparecchiamento (…) montato a cavallo e da’ suoi molti amici accompagnato di Ravenna uscì e andossen a un luogo fuor di Ravenna forse tre miglia, che si chiama Chiassi (…)”.

In quella cittadina trascorre le giornate tra pranzi e feste con gli amici e la famiglia, fino ad un venerdì in cui “egli entrato in pensiero della sua crudel donna” decide di isolarsi, inoltrandosi malinconico nella “PIGNETA” DI “CHIASSI”, fin quando “essendo già passata la quinta ora del giorno”, l’ora meridiana delle allucinazioni, assiste ad una scena terrificante: una bellissima ragazza corre nuda in mezzo agli alberi, urlando sgomenta e piangendo, seguita da due mastini e dietro di loro “sopra un corsier nero un cavalier bruno, forte nel viso crucciato, con uno stocco in mano, lei di morte con parole spaventevoli e villane minacciando.”. L’attonito e inorridito Nastagio cerca di intervenire per salvare la giovane, ma il cavaliere lo ferma, presentandosi:

“Nastagio, io fui d’una medesima terra teco, e eri tu ancor fanciullo quando io, il quale fui chiamato messer Guido degli Anastagi, era troppo più innamorato di costei che tu ora non sè di quella de’ Traversari; e per la sua fierezza e crudeltà andò sì la mia sciagura, che io un dì con questo stocco, il quale tu mi vedi in mano, come disperato m’uccisi, e sono alle pene eternali dannato.”

Poi prosegue spiegando che quell’inseguimento si concluderà quando lui la trafiggerà con la stessa spada con la quale si tolse la vita, per poi squartarla dandone il cuore e le interiora in pasto ai cani; dopodiché la donna si ricomporrà, ricomincerà a fuggire, e la caccia riprenderà nuovamente, altrove negli altri giorni, ma sempre in quel luogo, alla stessa ora tutti i venerdì. Quello è il loro castigo infernale cui entrambi sono condannati per tanti anni quanti furono i mesi in cui la fanciulla lo respinse deridendolo: lui per essersi suicidato, lei, morta poco tempo dopo, per averlo condotto con crudeltà a quel gesto estremo, per il quale mai provò né compassione, né pentimento. Detto ciò, il cavaliere riprende ad inseguire la sua “preda” e si compie la macabra scena finale di quella caccia infernale.

Nastagio coglie immediatamente la specularità tra la storia di amore non corrisposto della coppia dannata e la sua con la giovane Traversari; il suo nome stesso tra l’altro ricorda il cognome del cavaliere, la cui triste storia si rivela come un monito, in quanto lui stesso aveva più volte pensato al suicidio. Decide quindi di sfruttare quella straziante scena e invita “(…) messer Paolo Traversari e la moglie e la figliuola e tutte le donne lor parenti, e altre (...)” a banchettare in quel punto della pineta il venerdì seguente, prima di mezzogiorno. Nastagio imbandisce un sontuosissimo pranzo cui partecipano tutti gli invitati, con la ragazza amata “posta a seder di rimpetto al luogo dove doveva il fatto intervenire.”. Giunti all’ultima portata tutti iniziano ad udire le urla di terrore della donna dannata e si ripete la macabra caccia accompagnata dalla spiegazione del “cavalier bruno”. La scena spaventosa colpisce tutti, ma soprattutto la fanciulla amata che capisce di essere la destinataria privilegiata di quella visione e, “ricordandosi della crudeltà sempre da lei usata verso Nastagio; per che già le parea fuggire dinanzi da lui adirato e avere i mastini a’ fianchi”, in tutta fretta decide di convolare a nozze la domenica successiva con il giovane Degli Onesti, che così “con lei più tempo lietamente visse.”.

“E non fu questa paura cagione solamente di questo bene, anzi sì tutte le ravignane donne paurose ne divennero, che sempre poi troppo più arrendevoli a’ piaceri degli uomini furono che prima state non erano.”.

In questa novella troviamo menzionate ben tre tra le più antiche e potenti casate nobiliari di Ravenna, le quali dominarono la sua scena politica tra i secc. IX e XIII: i Degli Onesti, i Traversari e gli Anastagi.

I Degli Onesti furono Duchi di Ravenna durante l’alto Medioevo, e sono celebri in particolare per il duca Sergio degli Onesti, che sposò Traversara Traversari e dalla cui unione nel 952 nacque San Romualdo, fondatore dell’eremo di Camaldoli che diede il nome all'Ordine camaldolese, e dichiarato santo nel 1595. Ci fu un altro matrimonio tra le due potenti famiglie documentato dalle fonti: nel XII secolo Pietro Duca degli Onesti prese in sposa Sofia, sorella di Giovanni Traversari, il quale combatté sotto le insegne dell’imperatore Federico I Barbarossa.

Quindi Boccaccio ha avuto ben più di un esempio matrimoniale come fonte di ispirazione per il lieto fine tra i due giovani appartenenti alle due famiglie, tra le quali la più nota e potente fu quella della sposa. Difatti i Traversari dominarono Ravenna quasi incontrastati tra i secoli XII e XIII, e tra i loro membri molti furono duchi, condottieri, capitani, e furono i primi podestà di Ravenna. Tra loro anche diverse regine, e, come già visto, anche San Romualdo.

Tornando all’ambito letterario, Boccaccio non fu l’unico ad essere intrigato dai tormenti amorosi di questa illustre famiglia: prima di lui Dante Alighieri, che, oltre a citarli nel canto XIV del Purgatorio, ha elevato ad eterna memoria una loro discendente. Si tratta della giovane protagonista di una delle storie d’amore più tragiche e appassionanti di sempre: Francesca da Rimini (Inferno, canto V) che porta il cognome del casato Da Polenta, ma che ebbe come nonna paterna una Traversari, Caterina.

Ebbene siamo giunti all’altra nobile famiglia menzionato nella novella, quella cui appertiene il “cavalier bruno”: gli Anastagi. Anch’essi ricordati da Dante nel canto XIV del Purgatorio, tra il XII sec. e la prima metà del XIII entrarono in conflitto con i Traversari per contendersi il dominio di Ravenna, ma ne uscirono sconfitti, e il loro inesorabile declino condusse ad una diaspora dei discendenti verso altre regioni. La loro caduta precedette tuttavia di pochi decenni quella della famiglia rivale, la quale dovette subire a sua volta l’onta dell’esilio per mano dei nuovi Signori di Ravenna: i Da Polenta.

Tre famiglie ravennati illustri muovono e intrecciano le loro storie e le loro passioni nella cornice della “pigneta” di “Chiassi”, vera protagonista della novella. La suggestiva pineta di Classe è la stessa che Dante sceglie per la descrizione del Paradiso terrestre nel canto XXVIII del Purgatorio: un luogo unico collocato tra terra e cielo, il locus amoenus per eccellenza. Quella “selva di pini” dove Dante amava passeggiare e meditare è il luogo piacevole, almeno in apparenza, dove Nastagio assiste alla terribile caccia, che trasforma quel luogo edenico in un locus horridus, infernale, ma, contemporaneamente, si rivela come luogo epifanico e in seguito luogo di catarsi e della soluzione che conduce il protagonista ad un lieto fine.

Lieto fine che permette a Boccaccio di fornire, in maniera bonariamente canzonatoria, una sua simpatica e personale spiegazione a quelli che probabilmente erano i costumi alquanto arrendevoli in ambito amoroso delle donne ravennati dell’epoca. E qui, in base alle sensibilità, il lieto fine potrebbe ampliarsi ulteriormente.


Certo è che passeggiare tra i profumi intensi dei frutti di pino, del sottobosco, della sabbia del suolo, della salsedine portata dalla brezza marina, tra il verde e i colori terragni, dorati dalla soffice e suggestiva luce della pineta di Classe, come di tutta la costa ravennate, è un’esperienza unica e indimenticabile, in un luogo degno di essere, sulle orme di Dante, di “divina” ispirazione.








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