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LA BELLEZZA DELLE CIMINIERE

Dimenticate per un momento quello che meglio conoscete di Ravenna. L'oro dei suoi mosaici, il paesaggio piatto come una tavola, punteggiato di campanili rotondi. Le biciclette per le vie del centro. O qualche chilometro più in là, le spiagge del divertimento estivo.


La città ha anche un’altra anima, più inquietante e nevrotica, geometrica e immobile. E’ una Ravenna livida e nebbiosa, in cui scorre fluido il dialogo tra architettura e paesaggio, vedute e fughe tra gli alberi che cedono il passo alle fabbriche. E’ la città industriale, del boom economico, con le sue ciminiere e i suoi cieli plumbei.


In questo paesaggio, Michelangelo Antonioni ambientò “Deserto Rosso”, il suo primo film a colori, con cui vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1964, più di un mezzo secolo fa.


Per vedere questo lato meno conosciuto di Ravenna, occorre scendere lungo la scorticatissima via Baiona, che fila dritta verso Porto Corsini, strada-spartiacque tra due paesaggi: da una parte la fila interminabile di stabilimenti sorti negli anni dello sviluppo industriale, tra i ’50 e i ’60 del secolo scorso, simbolo del grande miracolo economico italiano: dall’altra la “pialassa”, suggestiva laguna salmastra a nord di Ravenna, fragile ecosistema popolato da avocette, cavalieri di Italia, garzette e fenicotteri, punteggiata di salicornie e tamerici e dai caratteristici capanni da pesca.


Diceva Michelangelo Antonioni: “È troppo semplicistico affermare, anche se sono stati in molti a dirlo, che io faccio un atto di accusa contro questo mondo industrializzato ed inumano che schiaccia l’individuo e lo nevrotizza. Al contrario, la mia intenzione (…) era di rendere la bellezza del mondo. Anche le fabbriche possono essere dotate di grande bellezza”. E proseguiva: “Le linee rette e curve delle fabbriche e delle loro ciminiere possono essere anche più belle di un filare di alberi che l’occhio ha già visto troppe volte”. (…)


Quelle atmosfere, a cercarle molto presto di mattina, o quando la luce del giorno va a spegnersi, raccontano ancora storie. Di lavoro, di speranza, di gente arrivata da lontano in cerca di futuro. Nel silenzio parlano le grandi dimensioni, gli spazi infiniti, le macchine che hanno preso il posto degli uomini. Un paesaggio geometrico e a tratti inquietante, per il senso di solitudine che può esprimere. Controluce taglienti, linee secche verso il cielo. Tagli inferti all’anima della città, che nel tempo ne sono diventati suoi tratti inconfondibili. Proprio come i mosaici.







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